La resilienza è un concetto relativamente nuovo nell’ambito psicologico, giunto a costituire un’importante area di ricerca nel corso degli ultimi decenni.
Il termine resilienza esiste già da molto tempo nell’ambito della fisica, che la definisce come la “capacità di un metallo di riprendere la sua forma originaria a seguito di un colpo non abbastanza forte da provocarne la rottura”.
In ambito psicologico, la resilienza rappresenta da una parte la “capacità umana” di riuscire a superare le avversità senza lasciarsi travolgere dai vissuti negativi e dall’altra il “processo” che porta l’individuo a recuperare la forza psicologica per fronteggiare eventi dolorosi e stressanti.
È importante sottolineare che la resilienza non è una competenza sociale, un tratto psicologico osservabile o una singola qualità, ma è essenzialmente un “concetto interattivo che deriva dalla combinazione di esperienze di rischio gravi con una riuscita psicologica relativamente positiva” e, soprattutto, deriva da un’interazione dinamica tra fattori di rischio, ossia fattori che possono aumentare la probabilità di sviluppare determinate problematiche e fattori protettivi, ossia fattori che controbilanciano i fattori di rischio “proteggendo” la persona.
Le prime ricerche ad occuparsi dell’analisi di fattori di rischio e protettivi sono quelle effettuate in età evolutiva a partire dagli anni ’70.
Sono le ricerche longitudinali di M. Rutter e colleghi (1979) sui bambini con madri schizofreniche che iniziano ad accendere l’interesse della comunità scientifica sul tema della resilienza e sulla sua origine. I suoi studi evidenziano che molti bambini del campione non presentavano psicopatologia o comportamenti disadattivi, fu così che Rutter propose una prima definizione di resilienza quale “risposta positiva di un soggetto allo stress e alle condizioni avverse, intendendo come positiva l’assenza di conseguenze psicopatologiche”.
Da queste prime ricerche si incrementò sempre di più l’interesse verso una maggior comprensione del modo in cui le persone affrontano le situazioni difficili, sia che si tratti di condizioni di vita sfavorevoli sia che si tratti di eventi traumatici.
Gli studi sulla psicopatologia dello sviluppo hanno mostrato che la resilienza è multidimensionale e multideterminata e che non esiste una sola fonte di resilienza o di vulnerabilità dal momento che entrambe si costituiscono a partire dall’interazione di diversi fattori, ad esempio predisposizioni genetiche, intelligenza, personalità, ma anche abilità sociali e autostima che, a loro volta, si intrecciano con una serie di fattori ambientali quali legami familiari, aspettative, apprendimento, contesto socio-economico, tipologia e quantità degli eventi ambientali stressanti e così via.
Si è dimostrato che non si tratta di un fenomeno “tutto o nulla”, e che le persone possono manifestare vari livelli di resilienza di fronte a eventi stressanti differenti ed in momenti diversi nel corso della vita. In altre parole, non si può considerare la resilienza come una condizione statica o come un tratto permanente di una persona perché si può essere resilienti di fronte ad un evento e non ad un altro (ad esempio, si può essere resilienti di fronte al maltrattamento ma non al conflitto genitoriale) oppure per alcuni “risultati di sviluppo” ma non per altri (ad esempio essere meno a rischio nei confronti della schizofrenia ma non della depressione) oppure in alcuni momenti della vita ma non in altri.
Si può lavorare sulla resilienza?
Assolutamente sì. Un percorso psicologico infatti potrebbe puntare alla stimolazione di alcune delle caratteristiche individuate da Susanna Kobasa, psicologa all’università di Chicago, quali locus of control interno, coinvolgimento nei confronti del proprio agire e capacità di affrontare il cambiamento attingendo alle proprie risorse interne ed esterne. In altri termini, un intervento potrebbe aiutare il paziente a dare un significato ed un senso alle esperienze passate alla luce delle risorse di cui si dispone nel presente.
“Se non è in tuo potere cambiare una situazione che ti crea dolore, potrai sempre escogitare l’atteggiamento con il quale affrontare questa sofferenza”.
Cit. Viktor Frankl
In collaborazione con la dott.ssa Giulia Liva, psicologa
References:
Casula, C. (2011). La forza della vulnerabilità. Utilizzare la resilienza per superare le avversità. Milano: Franco Angeli.
Costantino, M. A. (2009). Trasformazioni del concetto di resilienza e ricadute nella pratica. R&P, 57-64.
Rutter, M. (1979). Protective factors in children’s responses to stress and disadvantage. In &. J. in M. Kent, Primary Prevention in Psychopathology. Vol 3: Social Competence in Children(p. 49-74). Hanover: University Press of New England.